Tra le tante riflessioni che oggi hanno accompagnato la Giornata contro la violenza alle donne, abbiamo scelto questa dell'architetto Maurizio de Caro anche per l'originalità del suo approccio.

Tra le tante riflessioni che oggi hanno accompagnato la Giornata contro la violenza alle donne, abbiamo scelto questa dell'architetto Maurizio de Caro anche per l'originalità del suo approccio.

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di Maurizio de Caro**

Non uscire. Fammi vedere il telefono.

Dovremmo parlare di uomini, di quelli, di tutti noi che almeno una volta nella vita abbiamo usato le parole come armi, del tono che abbiamo assunto nel rimproverare senza un motivo preciso, anzi per motivi che noi stessi non abbiamo avuto il coraggio di dire a noi stessi.

E’ la frustrazione, l’inadeguatezza a sopportare che quello che avevamo immaginato è tutto diverso da quello che viviamo, e dunque siamo noi a doverci scusare una volta e per sempre. Per quella volta che è volato uno schiaffo, magari in risposta a quello ricevuto della fidanzata o della sorella o della moglie. E tutto questo ci è sembrato normale, perché davanti avevamo un essere speciale che non voleva essere quello che noi avremmo voluto, ma altro. 

E vederla andare via, per sempre o per poco non ha avuto l’effetto dovuto.

Così nasce e prolifera la pandemia della violenza più bieca, l’impossibile affermazione della debolezza degli uomini rispetto a qualcosa di grande che è altro da quello che siamo, e dunque a nord e a sud, tra ricchi, poveri, colti o ignoranti le botte vanno sempre a segno, e segnano il cuore delle donne, la loro volontà di affermarsi, di vivere senza doversi giustificare continuamente se sono entrate in camera, per strada in ufficio o in parlamento, perché una scollatura è solo una scollatura e un tacco a spillo è soltanto un tacco a spillo. 

Non ce ne siamo accorti ma sono millenni che questo va avanti senza subire modificazioni culturali, creando solo una fatica maggiore per ottenere quello che noi abbiamo sempre avuto, e le mamme non ci hanno insegnato bene,  almeno a molti di noi, che il rispetto e la libertà d’azione di chiunque sono un bene fondamentale nell’etica della quotidianità. 

Non c’entra la mercificazione del corpo, sia esso artistico o pubblicitario, è il ricorso all’ambiguità al doppio-senso che nessuna società è riuscita a vincere, e il linguaggio ha enormi responsabilità, anche nel raccontare l’omicidio di una donna, il femminicidio che ha avuto bisogno di una estrema differenziazione per diventare un’altra forma di reato. 

Troppe sono le realtà dove cova indisturbato questo atteggiamento e si tramanda dai nonni ai padri, ai figli, e si annida maligno in ogni ganglio della società e delle sue divisioni di classe, il femminismo, l’emancipazione della donna, la parità di genere sono facce di una medaglia che non riesce ad avere lo stesso spessore sociale.

La differenza, le differenze sono enormi, e nessuno potrà convincerci del contrario. 

Si muore solo perché si è donna, perché non ci stava, perché “se sarai carina con me”,”in fondo che vuoi che sia”, ma come sempre l’elaborazione del principio del sesso è alla base di un rapporto che resterà sempre disequilibrato nell’indifferenza dei più. 

I casi di cronaca, nera, nerissima, hanno creato l’assuefazione più totale ma non riescono neppure a fare luce sull’universo della violenza diffusa ed indifferenziata, dove sono costrette a vivere le nostre madri, le sorelle, le amiche e le colleghe di lavoro. E anche chi, come molti di noi, credono di non avere avuto colpe, almeno gravi, dovrebbero comunque chiedere scusa per tutte quelle volte che non abbiamo avuto la forza per denunciare le violenze che avvenivano vicino a noi. 

Oggi è una giornata che ha solo un significato istituzionale, e non deve assomigliare alla festa della mamma, ma al monito costante per tutte le colpe che la società non è riuscita ad estirpare e alla coscienza comune e civile che non è stata capace di creare tra gli uomini. 

La tragedia è in corso, e non sarà facile limitarne gli effetti ma la prossima volta che noi, uomini, sentiremo gli impulsi che ci accomunano, tutti, a quel mondo oscuro, a quell’abisso, cerchiamo di fare uno sforzo e fare una carezza alle nostre madri, alle nostre sorelle, alle nostre mogli, alle nostre fidanzate, forse non servirà ma abbiamo l’obbligo di pensare che possiamo cambiare, tutti, nessuno escluso, quella piccola azione quotidiana ci renderà umani, ci renderà finalmente uomini.

**Pubblicato su Affari Italiani il 25 novembre 2020”.

 

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